I pesci provano dolore? - Immagine di nature.com
C'e' poco da fare, per me e' impossibile "stare sul pezzo" come si dice in gergo giornalistico.
Semplicemente non ho il tempo materiale di finire gli articoli gia' cominciati (e ce ne sono tanti) ne' di aggiornare i vecchi articoli gia' pubblicati che richiederebbero una revisione.
Figuriamoci di stare al passo con le notizie di "cronaca" che, pur se interessanti, si succedono con un ritmo troppo rapido per i miei tempi.
Questo caso e' un'eccezione.
Non perche' l'articolo arriva al passo con le notizie, ma piu' che altro perche' sono stato fortunato nel poter includere nuovi sviluppi in un testo che stavo gia' elaborando.
Quest'articolo e' la continuazione del primo sulla percezione del dolore nei pesci e ha l'obbiettivo di completare la storia con una revisione degli articoli piu' recenti. Il tutto ha anche molto a che fare con discussioni recenti a svariati livelli che riguardano la pratica della pesca sportiva tout court ed in particolare la pratica della pesca con esche vertebrate vive. Discorso di cui non entro nel merito e che magari sara' oggetto di un post dedicato, in futuro.
Recentemente e' stato dato molto spazio su tutti i media ad un nuovo lavoro di Rose (nome che suonera' familiare a chi ha letto il primo articolo) ed altri scienziati che condividono la sua opinione.
Ma e' veramente cosi? Andiamo a vedere..
Innanzitutto occorre sottolineare che l'ultimo lavoro di Rose et al. e' una review: cioe' una revisione degli articoli finora pubblicati in materia e non un nuovo lavoro di ricerca.
Rose et al. sostengono argomenti sostanzialmente su 3 piani diversi
1 - Che la reazione al dolore non e' esattamente dolore
distinguendo in pratica quella che e' la nociocezione (cioe' la percezione di uno stimolo negativo) dal dolore vero e proprio (secondo Rose, cioe' quello legato ai sentimenti ed a funzioni cerebrali superiori) e discutendo sul tipo di fibre neuronali e sulle strutture cerebrali dedicate a questo compito
2 - Che gli esperimenti condotti finora, principalmente da Sneddon, siano inficiati dai criteri usati per classificare le reazioni e non siano riproducibili
secondo Rose et al. gli effetti delle iniezioni sono interpretati male, e potrebbero essere il risultato della manipolazione stessa. Si stupisce inoltre che sostanze diverse producano reazioni, a suo dire, simili
3 - Che i pesci, secondo Rose et al. non possedendo molte fibre e recettori di tipo C, non siano in grado di provare un dolore profondo ma soltanto stimoli superficiali
Come al solito i media generalisti, affamati di click e notizie, non hanno esitato a dare un tono ancora piu' perentorio alle parole degli scienziati. Questo articolo, lungi dall'essere presentato come l'ultimo di una lunga serie su di una questione decisamente spinosa e' stato trasposto come la prova definitiva che gli scienziati si sono decisi: i pesci non provano dolore.
La copertina dell'ultimo libro di Braithwaite
Nel frattempo pero' Braithwaite, Mettam e Sneddon hanno pubblicato anche loro una buona dose di articoli e libri. Materiale che pero' non e' stato considerato negli ultimi articoli sui media generalisti.
Secondo questi scienziati la questione e' piuttosto semplice:
I pesci sono in grado di percepire stimoli avversi/dolore? Si
Si comportano come se provassero dolore? Si
Se somministriamo antidolorifici queste reazioni si attenuano? Si
Sono in grado di imparare ad evitare di farsi male? Si
Dunque i pesci provano dolore.
D'altra parte un argomento portante e' che, se non fossero in grado di provare dolore, nel senso vero del termine, non si sarebbero potuti evolvere in un ambiente ostile. Ed in effetti un qualsiasi animale deve poter capire quali sono gli stimoli nocivi e distinguerli da altri non-nocivi, anche se il successo del gruppo degli insetti (notoriamente considerati incapaci di provare dolore) proverebbe il contrario.
Per complicare le cose quasi tutti gli autori concordano che molti di questi meccanismi di percezione del dolore siano specie-specifici, che cioe' specie diverse rispondano in maniera diversa allo stesso stimolo. Quindi non ci e' dato sapere se la trota abbia le stesse capacita' di provare dolore di un luccio o di una carpa.
Nel mezzo di questo marasma e' giunta anche la dichiarazione di Cambridge sulla coscienza animale, firmata a luglio scorso da un nutrito gruppo di scienziati internazionali.
In particolare secondo questi scienziati la coscienza e la consapevolezza (e quindi, anche la possibilita' di provare dolore) sarebbero una caratteristica piuttosto comune nel regno animale, propria di tutte quelle classi in cui sussistano i presupposti neurofisiologici necessari.
Non vi si fa esplicito riferimento ai pesci ma essi rientrerebbero nella definizione data.
E' un argomento piu' che spinoso che vede una gran massa di speculazione e di interessi (anche in termini economici) ma il motivo principale per cui non e' facile decidere e' che sconfina nell'etica, nella morale e piu' in genrale nell'empatia. 3 argomenti che non toccherei neanche con un bastone (neanche se fosse lungo).
Soprattutto e' un argomento che ha notevoli risvolti pratici e legislativi. Se fosse raggiunto un consenso diverse legislazioni nazionali ed internazionali (non solo regionali) dovrebbero essere riscritte e ci potrebbero essere serie ricadute economiche e sociali. Un consenso e' (per fortuna o sfortuna) ben lungi dall'essere raggiunto.
L'estremizzazione di gruppi animalisti come PETA, un ottimo modo per trasformare un argomento complesso in una tifoseria cieca - foto di PETA.org
Quello che posso dire e' che questo e' un tema in cui perfino gli scienziati piu' preparati tendono a cadere in due categorie contrapposte. Questo e' un tipico effetto di bias cognitivo, un meccanismo che non permette di considerare oggettivamente tutti i dati a disposizione ma che al contrario porta ad ignorare i dati che non sono favorevoli all'idea di partenza.
Questo meccanismo e' ancora piu' esasperato nell'uomo comune e nei media generalisti (sia social media che testate giornalistiche). Se vogliamo spingerci un attimo piu' lontani e' un riflesso di una societa' che in generale e' portata a trasformare tutto in una tribuna di stadio, dove tifosi dell'una o l'altra idea possono contrapporsi verbalmente.
Il mondo pero' non ha bisogno di tifoserie ma di persone preparate e pacate, che siano capaci di considerare tutti i dati (e quelli che verranno) in maniera oggettiva. Riusciremo a farlo?
Bibliografia:
Rose et al. 2012
Sneddon 2011
Sneddon et al. 2012
Sneddon et al. 2009
6 comments:
Mi piace il confronto che proponi e l'equilibrio che mantieni tra le due correnti senza sposarne una in forma preconcetta.
In giro vedo molto interesse sulla questione, forse a causa dell'atavico senso di colpa, che si ripropone oggi - a pancia piena - in chiave postmoderna.
Alla base di tutte queste ricerche esiste però, secondo me, una tara che non si può rimuovere:la differenza tra il nostro "kit sensoriale" e quello dei pesci, che ci limita pesantemente nell'avere piena coscienza, a prescindere dalla mera definizione scientifica, di certe sensazioni.
Ciao Andrea, grazie per il commento e per gli apprezzamenti.
Certo, c'e' una differenza incolmabile tra l'esperienza umana ed animale, anche per questo avremmo bisogno di buone definizioni per cercare di ridurre il piu' possibile la distanza (almeno dal nostro lato).
Dall'altro lato, passi dda gigante in campo tecnologico ci stanno avvicinando sempre di piu' a comprendere meglio come funzionino stimoli e fisiologia neurale dei pesci (http://www.popsci.com/science/article/2013-01/watch-zebrafish-think-about-food) speriamo che sia sufficiente.
Rischiando di cadere nell'off-topic, Marco, mi sai dire se molluschi come "cozze e vongole" percepiscono un effettivo, antropocentrico, dolore?
O rispondono a stimoli ambientali, non troppo differentemente da una pianta?
Profusamente tuo.
Sei fortunato perche' (anche grazie al discorso che abbiamo fatto a suo tempo sugli insetti) quando ho ricercato materiale per questo articolo ho selezionato una lista relativamente ampia.
Prova a guardare questa revisione dettagliata e piuttosto recente:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21709311
E questo link che invece ricalca la posizione di altri instituti, per esempio quello di Oslo che mi avevi citato tu:
http://www.parl.gc.ca/Content/SEN/Committee/372/lega/witn/shelly-e.htm
Faccio una riflessione spiccia. Se ti mettessero un amo in bocca e tirassero la lenza alla quale è legato, credi che opporresti resistenza o ti faresti trascinare per alleviare il dolore? Il pesce fa di tutto per liberarsi, se provasse dolore si farebbe trascinare senza opporre resistenza, anzi agevolerebbe il recupero nuotando nel verso della trazione. A me è capitato di pescare lo stesso pesce a distanza di 10 minuti. Lo stesso. Se il pesce avesse provato dolore e vissuto un'esperienza traumatica credi che avrebbe mangiato la stessa esca nei minuti seguenti la cattura e l'eventuale rilascio? Non serve la scienza per dimostrarlo, è sufficiente la logica.
Visto che siamo nel campo della riflessione spiccia credo che personalmente farei di tutto per liberarmi, nonostante il dolore. Piu' o meno come una volpe arriva a masticare la propria gamba per liberarsi della tagliola (e non credo ci siano dubbi circa il fatto che una volpe provi dolore). Credo sia capitato a tutti di pescare lo stesso pesce due volte, cosi' come anche di conoscere un pesce che una volta allamato e scappato non si fa ingannare per anni.
Purtroppo come vedi la logica arriva soltanto fino ad un certo punto.
Se fosse bastata la logica per far progredire la conoscenza avremmo forse mandato razzi sulla luna gia' nel medioevo. Anche se puo' non piacere, non abbiamo ancora tutte le risposte nonostante usiamo metodi di indagine piu' efficaci (la scienza) e questo e' uno dei casi in cui rimangono ancora dei dubbi.
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