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martedì 31 maggio 2011

La parabola del buon selvaggio



Le idee, si sa, sono cose strane. Fanno fatica a nascere ed a volte fanno ancora piu' fatica a morire.

C'e' un'idea particolarmente persistente che si sente riproposta periodicamente: quella del "buon selvaggio" che non raccoglie piu' di quello che puo' consumare e vive in armonia con la natura.
Sostenuta da molteplici autori del 18mo secolo come Shaftesbury e gia' allora contrastata da altri e' un'idea che fa fatica a morire ai giorni nostri. Sostanzialmente consiste nel dipingere l'uomo che vive nella natura come sostanzialmente buono, con alti principi morali ed etici innati e non acquisiti tramite religione o societa'.
Quest'idea probabilmente e' nata come reazione alle idee di Hobbes e ai fatti storici (massacri di indigeni) del secolo precedente.

La realta' e' che il selvaggio e' per natura tale e quale ad un uomo moderno. Semmai esistono differenze etiche queste sono il prodotto di societa' e cultura.

Molti sistemi di pesca e di coltivazione tradizionali e "primitivi" sono decisamente distruttivi su scala locale (pesca col veleno in amazzonia, bruciare foresta vergine in africa) e non lo sono su scala globale solo per il basso numero di abitanti e per le modeste porzioni di territorio a cui vengono applicati.


Nella realta' il selvaggio non riesce a far collassare le popolazioni di pesci principalmente perche' gli mancano i mezzi per farlo. Prova ne sia il fatto che quando questi mezzi vengono sviluppati (o forniti) non si fa nessun problema ad utilizzarli come e forse anche piu' delle persone "civilizzate".

Non e' una gara a chi e' "peggiore" ne' un disprezzare le altre culture che ci fa sentire migliori. Piuttosto quello del buon selvaggio e' un mito creato per far sentire peggiori noi stessi, una specie di condizione ideale a cui l'uomo moderno dovrebbe tendere.

Se volete leggere alcuni articoli sul tema non troppo tecnici e con un po' di umorismo vi consiglio il blog dell'Albero di Maggio.