venerdì 24 febbraio 2012

Una diga, mille impatti



A che serve costruire una diga?
La risposta è abbastanza facile: accumulare una riserva d’acqua, controllare il regime dei fiumi, creare nuovi spazi ricreativi, eccetera. Non ultimo, il fatto di produrre energia idroelettrica, fonte di per sé assolutamente pulita, priva di emissioni di CO2 o sostanze inquinanti.
Ci sono conseguenze negative che scaturiscono dalla costruzione di una diga?
Facile anche questo, la risposta è sì.
Più in dettaglio: le dighe sono dannose per i pesci o li favoriscono in qualche modo?
Esiste una relazione tra alterazione idrologica e invasioni di specie alloctone?
Perché, spesso, le aspettative relative alla pescosità negli invasi artificiali non trovano un riscontro costante?
Qui di seguito tenteremo di rispondere a queste ed altre domande.

Dato che l’effetto più importante di una diga sul corso d’acqua che la ospita è l’alterazione delle portate, cominciamo con alcuni principi fondamentali che riassumono l’importanza del regime idrologico, cioè l’andamento annuale delle portate di un fiume. I principi sono i seguenti:
1 - Il regime di un fiume ne caratterizza in maniera determinante l’habitat fisico e la composizione della comunità biologica.
2 - Il ciclo vitale degli organismi acquatici è scandito dalle portate dei fiumi
3 - La connettività tra le varie zone di un fiume deve essere preservata
4 - Le alterazioni del regime idrologico favoriscono l’invasione di specie alloctone

I concetti, presi singolarmente, sono abbastanza chiari, ma vediamo di approfondire alcuni aspetti che ne conseguono.

L’aspetto fisico dell’ambiente fluviale dipende dal suo regime e da come esso interagisce con altri fattori, su tutti la geologia dell’alveo. Un fiume ben conservato è fatto di molteplici habitat differenti, non solo dalla sorgente alla foce, ma anche all’interno di un singolo tratto: ci sono zone di corrente veloce, raschi, buche, meandri, fasce riparie, acque laterali separate dal corso principale, zone con più o meno vegetazione, più o meno ombreggiate, con substrato fine o grossolano, eccetera eccetera. Questa grande variabilità non è una realtà statica ma dinamica. Ciò che garantisce questo dinamismo sono generalmente le piene che, con la forza dell’erosione, creano, distruggono, spostano, fanno franare le sponde, invadono i terreni adiacenti, estirpano la vegetazione e così via. Detta così, la questione fa quasi paura. E’ evidente come anche la fauna, sul momento, risenta in modo negativo di questi eventi estremi. Tuttavia, un fiume regimato da una diga, privato delle forti piene, diventa un qualcosa di completamente diverso: l’aspetto generale inizia a mantenersi invariato, un gran quantitativo di sedimento fine si deposita, l’alveo si stabilizza, si perde gran parte della suddetta variabilità di habitat e, con essa, anche la biodiversità ospitata. Per farsi un’idea, ecco come può apparire un piccolo fiume mediterraneo, a monte di una diga (sinistra) e a valle (destra):
  

La differenza è grande. Se poi, cosa molto frequente, nel tratto regolato aggiungessimo anche il taglio della vegetazione, che cresce (se non altro) indisturbata in assenza di erosione, del nostro bel fiume rimarrebbe solo un canale dritto assolutamente monotono. In gergo si dice che l’habitat è banalizzato.
Nell’ambiente così stabilizzato a valle di una diga scompaiono le lanche e le acque basse laterali (backwaters), importantissime per la frega e lo svezzamento degli avannotti di molte specie. Si pensa che la progressiva rarefazione di specie come il luccio, in Italia e altrove, sia dovuta in buona parte alla scomparsa di questi habitat apparentemente secondari.
I pesci non sono gli unici a risentire di ciò. Anche gli anfibi, ad esempio, necessitano di backwaters per vivere e riprodursi. Il deposito di sedimento fine, inoltre, fa sì che la comunità di invertebrati bentonici cambi radicalmente, per non parlare delle alghe e delle macrofite. Queste ultime normalmente sono favorite dalla regolarizzazione delle portate, talvolta rendendosi talmente abbondanti da ostacolare la navigazione, ove consentita.
Il problema della regolarizzazione del regime di un fiume riguarda ovviamente quei fiumi che per natura avrebbero un regime irregolare. Un tipico esempio di ciò sono proprio i nostri fiumi mediterranei, dipendenti dalle piogge piottosto che da ghiacciai o acque sotterranee, pertanto soggetti a piene improvvise e secca estiva. I pesci dell'area mediterranea sono adattati a questo regime imprevedibile, pertanto sono specie piuttosto generaliste e fisiologicamente tolleranti in caso di alte temperature e scarso contenuto di ossigeno, condizioni tipiche del periodo estivo. Stiamo parlando in generale, ovviamente, è chiaro che una trota non ha lo stesso tipo di tolleranza di una tinca, per quanto una macrostigma sia in grado di sopportare temperature limite di 28°C. 
Le trote di ceppo mediterraneo sono ben adattate alle condizioni, talvolta estreme, dei nostri torrenti

Per fare un esempio di cosa significhi adattarsi ad un regime imprevedibile, consideriamo che le trote di ceppo mediterraneo sono in grado di ritardare la frega anche di diverse settimane, nel caso in cui i torrenti si trovino in piena per un periodo imprevedibilmente lungo. Non so se le trote atlantiche stoccate siano in grado di fare altrettanto ma, a quanto sembra, dopo una piena catastrofica che colpisce un corso d'acqua popolato dai due ceppi, le mediterranee sono quelle che alla fine hanno la meglio e sopravvivono all'evento estremo con maggiore probabilità.
Ma se gli eventi estremi sono dannosi anche per i pesci autoctoni, perché mai il fatto di smorzare questi fenomeni non dovrebbe essere auspicabile? Anzitutto per il discorso della perdita di habitat, visto poco fa. In secondo luogo, come noto, uno dei problemi principali che affliggono le acque dolci, e non solo, del XXI secolo sono le invasioni biologiche. Facciamo un esempio ipotetico: un barbo del Danubio non presenta affatto gli adattamenti al regime dei corsi d'acqua mediterranei. Quindi, in teoria, non dovrebbe essere in grado di acclimatarsi con successo se introdotto in un fiume appenninico, se non altro per via della competizione esercitata dai nostri pesci autoctoni. Ma cosa accade se le cause di disturbo naturale a cui le nostre specie sono adattate vengono meno? Viene meno anche il vantaggio che gli autoctoni hanno sugli alloctoni, pertanto questi ultimi possono avere la meglio! Storicamente, molte delle introduzioni volontarie di pesci che hanno avuto più successo sono state effettuate proprio in fiumi regolati. Viceversa, i più grossi fallimenti in questo senso sono avvenuti in corsi d'acqua dal regime naturale. In certi casi, specie alloctone già presenti in alcuni fiumi sono divenute infestanti solo dal momento in cui su quei corsi d'acqua sono entrate in funzione delle dighe.
Se poi parliamo di variazioni di portata improvvise, come quelle date dall'apertura o chiusura delle chiuse, vediamo come l'effetto negativo sia ben più diretto: si può assistere a “spiaggiamento” di uova, avannotti, o anche pesci adulti, come queste carpe che fotografai l'anno scorso nel Guadalquivir, sotto una diga, mentre tentavano di mettersi in salvo dalle acque che scendevano improvvisamente di livello.
Il rischio di trovarsi all'asciutto è alto ogni giorno, quando le dighe idroelettriche rilasciano acqua a seconda delle necessità energetiche

Fin qui abbiamo sviluppato gli aspetti che personalmente mi stanno più a cuore, i principi 1 e 4, perché sono quelli a cui spesso si dà poco peso. I restanti non sono tuttavia meno importanti: il secondo si riferisce al fatto che le variazioni stagionali delle portate spesso contribuiscono, insieme a temperature e fotoperiodo, alla maturazione delle gonadi nei pesci, come ad esempio nello scazzone (è vero che nei fiumi a carattere mediterraneo il regime è relativamente imprevedibile, ma la siccità estiva e le piene autunnali e primaverili restano comunque dei punti di riferimento fondamentali). 
Gli impatti non sono solo di natura idrologica, come postulato nel terzo principio: la presenza fisica di una diga rompe la continuità longitudinale del fiume, impedendo le migrazioni dei pesci, non solo delle specie anadrome come cheppie, storioni e lamprede, ma anche di quelle del piano, come barbi e cavedani, che in primavera si dirigono verso i letti di frega situati a monte, caratterizzati da raschi veloci e substrato a granulometria grossa. In quest'ambiente le uova rimangono a contatto con l'acqua, accomodandosi negli interstizi tra la ghiaia, anziché restare soffocate nel sedimento fine, come accade se vengono deposte a valle, nei tratti di acqua lenta. Se la migrazione viene impedita, si compromette parte del successo riproduttivo di queste specie.
Le acque rilasciate dal fondo di un invaso artificiale profondo hanno inoltre una temperatura molto diversa da quella che avrebbe il fiume in assenza dell'alterazione. In particolare, in primavera-estate il fiume in uscita dalla diga viene raffreddato notevolmente, come noto presso le tail waters ove sono state istituite riserve di pesca ai salmonidi in tratti originariamente vocati a ciprinidi. Le popolazioni di questi ultimi possono subire danni notevoli in seguito al raffreddamento delle acque, specialmente in termini di sviluppo degli avannotti. La gravità del danno dipende dalla portata del fiume: se si tratta di un torrentello con poca acqua, questa recupera quasi subito la temperatura ambiente, altrimenti il raffreddamento può riguardare molti chilometri di fiume.
Potremmo allungare all’infinito la lista delle diverse tipologie di impatto causate dagli invasi: ritenzione di sedimenti che sottrae sabbia al fiume e alle spiagge favorendo l’erosione costiera, alterazione del ciclo di nutrienti e perfino emissione di gas-serra.

Alcuni sostengono che tutti questi impatti sull’ecosistema sono controbilanciati dal fatto che se ne crea uno nuovo, il lago artificiale appunto. Purtroppo quest’argomentazione non regge granché. Anzitutto un lago non può rimpiazzare un fiume, trattandosi di un ambiente molto diverso. Inoltre gli invasi artificiali vengono regolarmente popolati con specie aliene, di puro interesse sportivo ma tutt’altro che naturalistico, come carpe, carassi, black bass, lucci di ceppo alloctono, channel catfish, eccetera, che puntualmente si ritrovano anche nel fiume.
Senza contare che queste specie difficilmente attecchiscono come si vorrebbe. Quante volte ci siamo chiesti, parlo ai pescatori, come mai alcuni ambienti idilliaci come certi laghi artificiali dalle acque cristalline non offrono quella pescosità che sarebbe lecito aspettarsi? Le ragioni possono essere molte, ma consideriamo anzitutto un fatto: in quasi tutti gli ambienti lacustri, la zona più produttiva è quella riparia, dove cresce la maggior parte della vegetazione che fornisce rifugio e cibo sia ai pesci che agli invertebrati. Questo è particolarmente vero nei laghi profondi, in cui solo le sponde ricevono luce sufficiente per la crescita di vegetazione. Gli invasi artificiali sono generalmente profondi, trattandosi di scoscese valli allagate, ed inoltre presentano un problema: le marcate oscillazioni del livello, che impediscono sia la crescita di alghe e macrofite acquatiche, le quali rimangono all’asciutto quando il livello si abbassa, sia la crescita di piante riparie, che rimangono invece sommerse quando il livello sale. Il risultato è che le rive sono sempre spoglie. Per cui, sia le sponde, sia la zona centrale, sono ambienti scarsamente produttivi! Senza contare che le specie ittiche che fregano in acque basse con vegetazione, come lucci o persici trota, rischiano di non trovare l’ambiente ideale, di restare con le uova all’asciutto oppure di non disporre delle "nursery" per gli avannotti.

Spero che questa panoramica contribuisca a farsi un'idea di alcuni dei fattori meno immediati da comprendere, e tuttavia sempre presenti, che possono contribuire a impoverire il patrimonio ittiologico dei nostri fiumi.
A breve, un post in cui capiremo se le dighe sono sempre indispensabili e quali risultati si sono ottenuti laddove si sia provveduto alla loro rimozione (L'articolo è adesso pubblicato e potete leggerlo QUI).

BIBLIOGRAFIA:
Bunn & Arthington, 2002
Kinsolving and Bain, 1993
Lytle and Poff, 2004
Marchetti and Moyle, 2001
Poff et al, 1997

4 comments:

Unknown ha detto...

Bel post. Ho una domanda che riguarda lo scazzone. Tu parli di variazioni che influiscono sulla maturazione delle gonadi come nel caso dello scazzone. Mi piacerebbe saperne di più su questa specie dato ce la trovo a volte nei fontanili, sempre più raramente purtroppo, e i fontanili sono ambienti abbastanza costanti per temperatura e portate. Sai indicarmi qualche studio?

Roberto 'Skazz' Merciai ha detto...

Ciao, non so se avevi letto il seguente post, che già ti dà qualche informazione in più, anche se piuttosto "leggera": http://paperfishbiology.blogspot.com/2011/09/convergenze-mirabili-la.html#more

Che aspetti ti interessano in particolare? Ecologia della specie? Conservazione? Questa pubblicazione, ad esempio, è una buona review su molti aspetti dell'ecologia di questa specie: Tomlinson ML & Perrow MR (2003). Ecology of the Bullhead Cottus gobio. Conserving Natura 2000 Rivers Ecology Series No. 4. English Nature, Peterborough.
Sulla riproduzione e il comportamento ci sono tanti bei lavori di Marconato-Rasotto-Bisazza e c'è anche la mia tesi di laurea, se mi dai un contatto email ti mando qualcosa ;)

Unknown ha detto...

Ho letto a suo tempo il post che mi era piaciuto molto. Mi interessa soprattutto l'ecologia.
Puoi usare la mail del blog: MahengechromisXXX@tiscali.it (elimina la stringa XXX)

Roberto 'Skazz' Merciai ha detto...

Ti ho inviato qualcosa, fammi sapere se lo ricevi!

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