A che serve costruire una diga?
La risposta è abbastanza facile:
accumulare una riserva d’acqua, controllare il regime dei fiumi, creare nuovi spazi
ricreativi, eccetera. Non ultimo, il fatto di produrre energia idroelettrica,
fonte di per sé assolutamente pulita, priva di emissioni di CO2 o sostanze
inquinanti.
Ci sono conseguenze negative che
scaturiscono dalla costruzione di una diga?
Facile anche questo, la risposta è
sì.
Più in dettaglio: le dighe sono
dannose per i pesci o li favoriscono in qualche modo?
Esiste una relazione tra
alterazione idrologica e invasioni di specie alloctone?
Perché, spesso, le aspettative
relative alla pescosità negli invasi artificiali non trovano un riscontro costante?
Qui di seguito tenteremo di
rispondere a queste ed altre domande.
Dato che l’effetto più importante
di una diga sul corso d’acqua che la ospita è l’alterazione delle portate, cominciamo
con alcuni principi fondamentali che riassumono l’importanza del regime
idrologico, cioè l’andamento annuale delle portate di un fiume. I principi sono
i seguenti:
1 - Il regime di un fiume ne
caratterizza in maniera determinante l’habitat fisico e la composizione della
comunità biologica.
2 - Il ciclo vitale degli organismi
acquatici è scandito dalle portate dei fiumi
3 - La connettività tra le varie
zone di un fiume deve essere preservata
4 - Le alterazioni del regime
idrologico favoriscono l’invasione di specie alloctone
I concetti, presi singolarmente, sono
abbastanza chiari, ma vediamo di approfondire alcuni aspetti che ne conseguono.
L’aspetto fisico
dell’ambiente
fluviale dipende dal suo regime e da come esso interagisce con altri
fattori,
su tutti la geologia dell’alveo. Un fiume ben conservato è fatto di
molteplici
habitat differenti, non solo dalla sorgente alla foce, ma anche
all’interno di
un singolo tratto: ci sono zone di corrente veloce, raschi, buche,
meandri, fasce riparie, acque laterali separate dal corso principale,
zone con più o
meno vegetazione, più o meno ombreggiate, con substrato fine o
grossolano,
eccetera eccetera. Questa grande variabilità non è una realtà statica ma
dinamica. Ciò che garantisce questo dinamismo sono generalmente le piene
che,
con la forza dell’erosione, creano, distruggono, spostano, fanno
franare le sponde,
invadono i terreni adiacenti, estirpano la vegetazione e così via. Detta
così,
la questione fa quasi paura. E’ evidente come anche la fauna, sul
momento,
risenta in modo negativo di questi eventi estremi. Tuttavia, un fiume
regimato da una
diga, privato delle forti piene, diventa un qualcosa di completamente
diverso:
l’aspetto generale inizia a mantenersi invariato, un gran quantitativo
di
sedimento fine si deposita, l’alveo si stabilizza, si perde gran parte
della
suddetta variabilità di habitat e, con essa, anche la biodiversità
ospitata.
Per farsi un’idea, ecco come può apparire un piccolo fiume mediterraneo,
a
monte di una diga (sinistra) e a valle (destra):
La differenza è grande. Se poi,
cosa molto frequente, nel tratto regolato aggiungessimo anche il taglio della
vegetazione, che cresce (se non altro) indisturbata in assenza di erosione, del
nostro bel fiume rimarrebbe solo un canale dritto assolutamente monotono. In
gergo si dice che l’habitat è banalizzato.
Nell’ambiente così stabilizzato a
valle di una diga scompaiono le lanche e le acque basse laterali (backwaters),
importantissime per la frega e lo svezzamento degli avannotti di molte specie.
Si pensa che la progressiva rarefazione di specie come il luccio, in Italia e
altrove, sia dovuta in buona parte alla scomparsa di questi habitat
apparentemente secondari.
I pesci non sono gli unici a
risentire di ciò. Anche gli anfibi, ad esempio, necessitano di backwaters per
vivere e riprodursi. Il deposito di sedimento fine, inoltre, fa sì che la
comunità di invertebrati bentonici cambi radicalmente, per non parlare delle alghe e
delle macrofite. Queste ultime normalmente sono favorite dalla regolarizzazione
delle portate, talvolta rendendosi talmente abbondanti da ostacolare la
navigazione, ove consentita.
Il problema della regolarizzazione
del regime di un fiume riguarda ovviamente quei fiumi che per natura avrebbero
un regime irregolare. Un tipico esempio di ciò sono proprio i nostri fiumi
mediterranei, dipendenti dalle piogge piottosto che da ghiacciai o acque sotterranee, pertanto soggetti a piene
improvvise e secca estiva. I pesci dell'area mediterranea sono
adattati a questo regime imprevedibile, pertanto sono specie piuttosto generaliste e fisiologicamente tolleranti in caso di alte
temperature e scarso contenuto di ossigeno, condizioni tipiche del periodo estivo. Stiamo
parlando in generale, ovviamente, è chiaro che una trota non ha lo stesso tipo di
tolleranza di una tinca, per quanto una macrostigma sia in grado di sopportare temperature limite di 28°C.
Le trote di ceppo mediterraneo sono ben adattate alle condizioni, talvolta estreme, dei nostri torrenti |
Per fare un esempio di cosa significhi adattarsi ad
un regime imprevedibile, consideriamo che le trote di ceppo mediterraneo sono
in grado di ritardare la frega anche di diverse settimane, nel caso in cui i
torrenti si trovino in piena per un periodo imprevedibilmente lungo. Non so se
le trote atlantiche stoccate siano in grado di fare altrettanto ma, a quanto
sembra, dopo una piena catastrofica che colpisce un corso d'acqua popolato dai
due ceppi, le mediterranee sono quelle che alla fine hanno la meglio e
sopravvivono all'evento estremo con maggiore probabilità.
Ma se gli eventi estremi sono
dannosi anche per i pesci autoctoni, perché mai il fatto di smorzare questi
fenomeni non dovrebbe essere auspicabile? Anzitutto per il discorso della
perdita di habitat, visto poco fa. In secondo luogo, come noto, uno dei
problemi principali che affliggono le acque dolci, e non solo, del XXI secolo
sono le invasioni biologiche. Facciamo un esempio ipotetico: un
barbo del Danubio non presenta affatto gli adattamenti al regime dei corsi d'acqua
mediterranei. Quindi, in teoria, non dovrebbe essere in grado di
acclimatarsi con successo se introdotto in un fiume appenninico, se non altro
per via della competizione esercitata dai nostri pesci autoctoni. Ma cosa
accade se le cause di disturbo naturale a cui le nostre specie sono adattate
vengono meno? Viene meno anche il vantaggio che gli autoctoni hanno sugli
alloctoni, pertanto questi ultimi possono avere la meglio! Storicamente, molte
delle introduzioni volontarie di pesci che hanno avuto più successo sono state
effettuate proprio in fiumi regolati. Viceversa, i più grossi fallimenti in
questo senso sono avvenuti in corsi d'acqua dal regime naturale. In certi casi,
specie alloctone già presenti in alcuni fiumi sono divenute infestanti solo dal
momento in cui su quei corsi d'acqua sono entrate in funzione delle dighe.
Se poi parliamo di
variazioni di
portata improvvise, come quelle date dall'apertura o chiusura delle
chiuse,
vediamo come l'effetto negativo sia ben più diretto: si può assistere a
“spiaggiamento”
di uova, avannotti, o anche pesci adulti, come queste carpe che
fotografai
l'anno scorso nel Guadalquivir, sotto una diga, mentre tentavano di
mettersi in salvo dalle acque che scendevano improvvisamente di livello.
Il rischio di trovarsi all'asciutto è alto ogni giorno, quando le dighe idroelettriche rilasciano acqua a seconda delle necessità energetiche |
Fin qui abbiamo sviluppato gli
aspetti che personalmente mi stanno più a cuore, i principi 1 e 4, perché sono
quelli a cui spesso si dà poco peso. I restanti non sono tuttavia meno
importanti: il secondo si riferisce al fatto che le variazioni stagionali delle portate spesso contribuiscono,
insieme a temperature e fotoperiodo, alla maturazione delle gonadi nei pesci, come
ad esempio nello scazzone (è vero che nei fiumi a carattere mediterraneo il
regime è relativamente imprevedibile, ma la siccità estiva e le piene autunnali
e primaverili restano comunque dei punti di riferimento fondamentali).
Gli impatti non
sono solo di natura idrologica, come postulato nel terzo principio: la presenza fisica di una diga rompe la continuità longitudinale del fiume, impedendo le
migrazioni dei pesci, non solo delle specie anadrome come cheppie, storioni e
lamprede, ma anche di quelle del piano, come barbi e cavedani, che in primavera
si dirigono verso i letti di frega situati a monte, caratterizzati da raschi veloci e substrato
a granulometria grossa. In quest'ambiente le uova rimangono a contatto con
l'acqua, accomodandosi negli interstizi tra la ghiaia, anziché restare
soffocate nel sedimento fine, come accade se vengono deposte a valle, nei tratti
di acqua lenta. Se la migrazione viene impedita, si compromette parte del
successo riproduttivo di queste specie.
Le acque rilasciate dal fondo di un
invaso artificiale profondo hanno inoltre una temperatura molto diversa da
quella che avrebbe il fiume in assenza dell'alterazione. In particolare, in
primavera-estate il fiume in uscita dalla diga viene raffreddato notevolmente,
come noto presso le tail waters ove sono state istituite riserve di pesca ai
salmonidi in tratti originariamente vocati a ciprinidi. Le popolazioni di
questi ultimi possono subire danni notevoli in seguito al raffreddamento delle
acque, specialmente in termini di sviluppo degli avannotti. La gravità del danno dipende dalla portata del fiume: se si tratta di un torrentello con poca acqua, questa recupera quasi subito la temperatura ambiente, altrimenti il raffreddamento può riguardare molti chilometri di fiume.
Potremmo allungare all’infinito la
lista delle diverse tipologie di impatto causate dagli invasi: ritenzione di
sedimenti che sottrae sabbia al fiume e alle spiagge favorendo l’erosione
costiera, alterazione del ciclo di nutrienti e perfino emissione di gas-serra.
Alcuni sostengono che tutti questi
impatti sull’ecosistema sono controbilanciati dal fatto che se ne crea uno
nuovo, il lago artificiale appunto. Purtroppo quest’argomentazione non regge
granché. Anzitutto un lago non può rimpiazzare un fiume, trattandosi di un ambiente
molto diverso. Inoltre gli invasi artificiali vengono regolarmente popolati con
specie aliene, di puro interesse sportivo ma tutt’altro che naturalistico,
come carpe, carassi, black bass, lucci di ceppo alloctono, channel catfish,
eccetera, che puntualmente si ritrovano anche nel fiume.
Senza contare che queste specie
difficilmente attecchiscono come si vorrebbe. Quante volte ci siamo chiesti,
parlo ai pescatori, come mai alcuni ambienti idilliaci come certi laghi
artificiali dalle acque cristalline non offrono quella pescosità che sarebbe
lecito aspettarsi? Le ragioni possono essere molte, ma consideriamo anzitutto
un fatto: in quasi tutti gli ambienti lacustri, la zona più produttiva è quella
riparia, dove cresce la maggior parte della vegetazione che fornisce rifugio e
cibo sia ai pesci che agli invertebrati. Questo è particolarmente vero nei
laghi profondi, in cui solo le sponde ricevono luce sufficiente per la
crescita di vegetazione. Gli invasi artificiali sono generalmente profondi,
trattandosi di scoscese valli allagate, ed inoltre presentano un problema: le marcate
oscillazioni del livello, che impediscono sia la crescita di alghe e macrofite
acquatiche, le quali rimangono all’asciutto quando il livello si abbassa, sia
la crescita di piante riparie, che rimangono invece sommerse quando il livello
sale. Il risultato è che le rive sono sempre spoglie. Per cui, sia le sponde,
sia la zona centrale, sono ambienti scarsamente produttivi! Senza contare che
le specie ittiche che fregano in acque basse con vegetazione, come lucci o persici
trota, rischiano di non trovare l’ambiente ideale, di restare con le uova all’asciutto
oppure di non disporre delle "nursery" per gli avannotti.
Spero che questa panoramica contribuisca a farsi un'idea di alcuni dei fattori meno immediati da comprendere, e tuttavia sempre presenti, che possono contribuire a impoverire il patrimonio ittiologico dei nostri fiumi.
A breve, un post in cui capiremo se le dighe sono sempre indispensabili e quali risultati si sono ottenuti laddove si sia provveduto alla loro rimozione (L'articolo è adesso pubblicato e potete leggerlo QUI).
BIBLIOGRAFIA:
Bunn & Arthington, 2002
Kinsolving and Bain, 1993
Lytle and Poff, 2004
Marchetti and Moyle, 2001
Poff et al, 1997
4 comments:
Bel post. Ho una domanda che riguarda lo scazzone. Tu parli di variazioni che influiscono sulla maturazione delle gonadi come nel caso dello scazzone. Mi piacerebbe saperne di più su questa specie dato ce la trovo a volte nei fontanili, sempre più raramente purtroppo, e i fontanili sono ambienti abbastanza costanti per temperatura e portate. Sai indicarmi qualche studio?
Ciao, non so se avevi letto il seguente post, che già ti dà qualche informazione in più, anche se piuttosto "leggera": http://paperfishbiology.blogspot.com/2011/09/convergenze-mirabili-la.html#more
Che aspetti ti interessano in particolare? Ecologia della specie? Conservazione? Questa pubblicazione, ad esempio, è una buona review su molti aspetti dell'ecologia di questa specie: Tomlinson ML & Perrow MR (2003). Ecology of the Bullhead Cottus gobio. Conserving Natura 2000 Rivers Ecology Series No. 4. English Nature, Peterborough.
Sulla riproduzione e il comportamento ci sono tanti bei lavori di Marconato-Rasotto-Bisazza e c'è anche la mia tesi di laurea, se mi dai un contatto email ti mando qualcosa ;)
Ho letto a suo tempo il post che mi era piaciuto molto. Mi interessa soprattutto l'ecologia.
Puoi usare la mail del blog: MahengechromisXXX@tiscali.it (elimina la stringa XXX)
Ti ho inviato qualcosa, fammi sapere se lo ricevi!
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